lunedì 25 aprile 2011

L’Arte come gesto-emozione di un Io ferito

Johann Hauser, "Untitled", 1986 - Art Brut, Losanna


“ Nella stessa misura in cui non accetta l’altro, l’uomo non riconosce il diritto all’esistenza dell’”altro” che è in lui, e viceversa …. Il confronto appare indubbiamente più complicato quando si dispone soltanto di prodotti figurativi che, per chi li intende, parlano un linguaggio di per sé eloquente, ma a chi non li intende sembrano un linguaggio da sordomuti. Di fronte a queste raffigurazioni l’Io deve prendere l’iniziativa e chiedersi: “Che effetto fa su di me questo segno?” …” C.G.Jung - La Funzione Trascendente -

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Molto spesso i lavori che si svolgono durante una seduta di ArtCounseling sono , oltre che parole che non si riescono ad esprimere con la voce, anche gesti trasformati in immagini.

Non sempre tali immagini derivano da atti di consapevolezza e di riflessione, esse sono piuttosto un involto per quei gesti che altrimenti andrebbero sparsi e persi.

Gesti che le immagini arginano e organizzano attraverso iscrizioni simboliche esterne, offrendo di riflesso un perimetro, un contenimento ed una capacità di pensiero ad un Io interno ferito.

Questi lavori diventano quindi narrazione di emozioni che trovano sulla carta la loro possibilità di esistere. Uno spazio produttivo dove possibili sbocchi, risposte non dette, soluzioni cercate acquistano la liberatoria concretezza di un istante creativo. Atti creativi capaci di fornire davvero un sollievo e un sostegno e più ancora un’ampiezza al di là delle angosce.

Infatti, nel superiore “gioco” costituito dal dipingere, la forma ricercata è tradotta in una immagine figurata o astratta che diventa un autentico simbolo. E questa trasmette, diventando concretamente specchio, i gesti, le sensazioni e le emozioni da assimilare sempre più dentro di sé, da introiettare come argine e contorno ben più pensabile e vivibile.

Jung ha scritto “vi sono […] persone […] le cui mani hanno la capacità di esprimere contenuti dell’inconscio” (Jung “La funzione trascendente”); vi è quindi un “sapere” del corpo che a partire dal gesto e dalla sensorialità rinviene la consapevolezza delle proprie memorie e delle eventuali ferite ed è in grado di travasarlo in più complesse e personali strutture di significato.

E’ proprio quanto potenzialmente accade nell’arte del dipingere, così come può accadere in vario grado ed in differenti modi grazie al tramite di qualunque altra attività estetico-creativa. In questi casi il simbolo conserva dentro di sé il gesto da cui nasce o che può ugualmente nascere, volendo, nella nota musicale, nel passo di una danza, nella recitazione di un attore.

Gesti tesi a diventare consapevoli dell’emozione in essi celata e che quindi a tale scopo inventano un gioco che offre inconsapevolmente all’io ferito, la risposta parziale ma ferma di un momento di incanto.

Il gesto insomma come punto di partenza, il seme che contiene le potenzialità e le linee direttive della futura possibile pianta.

Ecco quindi come in un percorso di ArtCounseling diventa primario il processo , la messa in atto che porta racchiusa in sé sia la ferita che la sua ri-tessitura, per arrivare alla consapevolezza, a quella fonte primaria di dolore e darsi quindi il permesso di poter andare oltre ….

lunedì 18 aprile 2011

L’Autobiografia: raccontarsi come cura di sè



“ ..fogli bianchi sono la dismisura dell’anima
e io su questo sapore agrodolce
vorrò un giorno morire,
perché il foglio bianco è violento.
Violento come una bandiera,
una voragine di fuoco,
e così io mi compongo
lettera su lettera all’infinito
affinchè uno mi legga
ma nessuno impari nulla
perché la vita è sorso,
e sorso di vita i fogli bianchi
dismisura dell’anima..”
Alda Merini

Cercavo un incipit per parlare di autobiografia, qualcosa che toccasse il cuore delle persone e le incuriosisse in modo da arrivare in fondo all’articolo e “per caso” mi è capitato tra le mani un romanzo “Treno di notte per Lisbona” di Pascal Mercier e tra le pagine di questo libro un brano che ha colpito tutti i miei sensi, intenerito la mia anima e dato forse un senso a quello che leggerete dopo.....
“delle mille esperienze che facciamo, riusciamo a tradurne in parole al massimo una e anche questa solo per caso e senza l’accuratezza che meriterebbe. Fra tutte le esperienze mute si celano quelle che, a nostra insaputa, conferiscono alla nostra vita la sua forma, il suo colore, la sua melodia. Allorchè ci volgiamo, quali archeologi dell’anima, a questi tesori scopriamo quanto sconcertanti essi siano. L’oggetto che prendiamo in esame si rifiuta di stare fermo, le parole scivolano via dal vissuto e alla fine sulla carta rimangono pure affermazioni contraddittorie. Per lungo tempo ho creduto che questa fosse una mancanza, una pecca, qualcosa che si dovesse superare. Oggi penso che le cose stiano diversamente: che il riconoscimento dello sconcerto sia la via regia per giungere alla comprensione di quelle esperienze tanto familiari quanto enigmatiche. Tutto ciò può suonare strano, anzi singolare, lo so. Ma da quando vedo la faccenda in questo modo, ho la sensazione di essere per la prima volta davvero vigile e vivo.....”
“C’è un momento nel corso della nostra vita, come dice Duccio Demetrio ,in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito. “Capita a tutti, prima o poi .... da quando forse, la scrittura si è assunta il compito di raccontare in prima persona quanto si è vissuto e di resistere all’oblio della memoria....” (D.Demetrio – “Raccontarsi” p.1).
Raccontare di sé, della propria vita, dei propri ricordi, dei successi e delle sconfitte, dei sentimenti, delle paure, degli amici e degli amori,…l'autobiografia è uno sforzo di attenzione/cura di sé che collega parti differenti della nostra vita fornendo un repertorio di modi di essere di sé nel tempo e nello spazio ed un senso del proprio posto nel mondo, secondo una prospettiva di continua costruzione e ri-costruzione della propria immagine identitaria.
E', dunque, da un lato, organizzazione e formalizzazione dell'identità vissuta, dall'altro raccolta e organizzazione di elementi costitutivi l'immagine di sé capaci di essere strumenti per scoprire la personale chance evolutiva che ognuno di noi possiede quella “tendenza attualizzante”, coniata da Rogers in base al quale ogni individuo ha in sé la capacità di realizzare le proprie potenzialità . La rivisitazione della propria vita è così sempre un invito e quasi una necessità di ricominciare a vivere e a cercare, abilitandosi a vivere il tempo futuro, consapevole che ogni abilitazione non è mai l'ultima e che ogni abilità maturata nasconde sempre un'altra faccia di sé che è quella del non-ancora-realizzato.
Scrivere di sè è un modo di attribuire un significato alle esperienze passate per poter costruire il proprio futuro; può aiutarci a ripensare a chi siamo e alla nostra storia; ci obbliga a fermarci un attimo e a capire dove siamo.
Narrare di Sé riattualizzando il passato sollecita nelle persone il recupero di “ quelle tracce di senso” esistenziali, spirituali, relazionali, cognitive, affettive presenti lungo il continuum esperienziale della personale storia di vita e, spesso, sommerse, e in-comprese dalla tumultuosità di quello che ci accade, unite spesso, dalla superficialità e automaticità che accompagnano le azioni della vita quotidiana. Azioni vissute frequentemente come disunite e apparentemente prive di connessioni, per le molteplici interferenze e imprevisti che accrescono il disagio, il disorientamento e ci costringono reattivamente a patteggiare, ad operare scelte, non senza sofferenza e frustrazioni, in un continuo costruire e ri-costruire contesti di vita.
Parlando di sé ci si consente inoltre di sentirsi autore, protagonista e regista di quello che si sta scrivendo. Questo sentirsi personaggio principale ci ricompensa di tutto quel tempo in cui la vita ci ha “obbligato” ad essere comparse, spettatori a volte muti di tutto quanto si è fatto.
Lo spazio autobiografico è il tempo della “tregua”, una “base sicura” nata da noi stessi per noi stessi, in cui pressante diventa il rintracciare i molti ruoli, le molte parti recitate non per colpevolizzarci, bensì per attendere alla “sutura”, alla ri-composizione di tutti i frammenti.
Ri-tessendo le trame della nostra esistenza, alla moviola di uno spazio-tempo per sé, si genera, altresì, quel momento essenziale di distanza emotiva da se stessi mentre si rivive se stessi, necessario per guardarsi sulla scena cercando di individuare ruoli, battute, esibizioni superflue o viceversa cruciali.
Fare autobiografia è un darsi pace, pur affrontando il dolore del ricordo: scrivendone, infatti, si allevia la sofferenza e se ne rielabora il senso.
E’ trovare una stanza tutta nostra in cui far emergere dallo sfondo indistinto cose ,fatti, sensazioni, figure.
E’ un guardarsi dall’alto osservandoci “come un paesaggio affatto ordinato dove, in quanto autori, stabiliamo simmetrie e asimmetrie, zone oscure o chiarificate, picchi o pianure, vie maestre e sentieri.... non sempre le figure emergono evidenti. E’ però un tentativo della mente di ritrovare un punto, un’ansa ..... al quale ancorarsi. Almeno per qualche istante, tra giochi della memoria e riflessioni sul senso degli accadimenti...” (D.Demetrio “Raccontarsi” pag.34).
Raccontare la propria storia, cercando di portare alla luce dalla penombra dell’oblio le immagini più lontane che si credevano perdute ma che invece sono ancora lì tra le pieghe della nostra memoria, è un atto di solidarietà e amore verso se stessi, è un voler prendersi per mano entrando in contatto in modo autentico con il nostro mondo emozionale iniziando un viaggio verso la parte più profonda di noi stessi portandola alla luce in tutta la sua ricchezza e le sue sfaccettature.
Da tutto ciò possiamo delineare i benefici della pratica autobiografica in un percorso di Arteterapia.
Raccontare la nostra storia, scriverla, buttarla fuori, è già di per se stesso un atto liberatorio. Non può cancellare il dolore o la sofferenza, ma può essere almeno un modo per prenderne le distanze, per mettere un punto. Questo è uno dei motivi più profondi (e per questo curativi) dell’autobiografia. Scrivere di sé è qualcosa che aiuta a stare bene, o meglio.
Prendendosi del tempo per sé, vuol dire aver cura di noi, in sintesi: volerci più bene. Inoltre l’ascolto di noi stessi ci aiuta anche ad aumentare la nostra capacità di ascolto verso gli altri.
Ritornare con la mente ad eventi ed emozioni passate ci fa capire il motivo di scelte che forse oggi non faremmo più ma in quel momento rappresentavano l’unico modo possibile e questo ci aiuta a perdonarci, ad alleviare quei sensi di colpa che spesso avvelenano la nostra vita.
Andare alla scoperta di pezzi lontani della nostra storia vuol dire anche riannodare fili che credevamo persi , trovando il coraggio di elaborare eventi che sembravano compiuti , giungendo a spiegazioni fino a quel momento rimaste nascoste, aprendosi così spazi di progettualità e cambiamento e permettendoci di intravedere ciò che è possibile fare ancora.
Andare alla ricerca dei ricordi, serve anche a ricercare la bellezza di tanti momenti che abbiamo dimenticato . Gli esercizi della memoria, ci aiutano a tirarli fuori, e così ..... a sorridere di più.
Scrivere di sé e condividere la nostra esperienza con altri, significa offrire ad altri la possibilità di conoscerci così come noi ci percepiamo riscoprendo il nostro valore , arricchendo la nostra immagine e di conseguenza aumentando la nostra autostima. Ci permette inoltre di trovare cose comuni e punti di contatto sentendosi così vicini e sviluppando sentimenti di unione. Crea comunicazione.
Narrare di sé, aiuta ad acquisire sicurezza. Ad operare delle scelte ascoltando le nostre intuizioni più profonde, superando la paura del giudizio degli altri.
E da ultimo l’aspetto più importante è sentire che si è vissuto e che si sta ancora vivendo.....

Per saperne di più:
Duccio Demetrio “Raccontarsi” Ed. Raffaello Cortina
Duccio Demetrio “Il gioco della vita “ Ed.Guerini e Associati
Natalie Goldberg “Scrivere Zen” Ed. Ubaldini
Fernando Pessoa “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares” Ed. Feltrinelli

venerdì 15 aprile 2011

La pratica dell’Arteterapia: strumenti e metodo

Collage di Angela I.


“…. Il linguaggio dell’arte può accogliere, trasformare, e rendere intellegibile l’esperienza sorgiva, il caos emotivo originario e inconsapevole da cui ogni volta sorge il Nuovo …” F.Petrella

Come più volte ripetuto in vari post l’Arteterapia offre all’utente l’opportunità di fare scoperte e prendere decisioni in modo creativo in un setting protetto: l’ArtCounselor funge da guida e facilitatore, mentre il cliente è libero di giocare e sperimentare con i vari materiali.

Talvolta il processo creativo può essere rilassante e “terapeutico” in se stesso; altre volte può essere più soddisfacente per l’utente e l’operatore guardare insieme il prodotto finito e rileggere il processo attuato per realizzarlo.

Pensieri e desideri possono emergere durante la creazione ed essere trasferiti negli oggetti artistici, anche quando qualcosa non è ancora chiaramente presente a livello di coscienza; se durante la verbalizzazione i lavori artistici assumono significati particolari o li cambiano, la conoscenza e l’introspezione che ne possono derivare sono un vantaggio in più per una maggiore consapevolezza.

Quando è necessario l’operatore può suggerire i temi su cui lavorare, ma sono le necessità spontanee del cliente che di solito influenzano il corso di un incontro.

L’Arteterapia prevede l’uso di molteplici materiali, buona parte dei quali solitamente utilizzati per le arti figurative. La creatività e la sensibilità del conduttore guidano il percorso del cliente, il quale, invece, è attivamente impegnato nel processo creativo e nella discussione sul significato del prodotto, sulle ragioni per cui ha creato tale prodotto e sul metodo seguito per realizzarlo. Inoltre se il cliente decide di correre il rischio di usare materiali artistici che non gli sono familiari, il controllo e le resistenze possono diminuire e spesso la sorpresa ed il senso di soddisfazione incoraggiano nuove scoperte e risposte a domande interiori.

Allo stesso modo se il cliente ha creato diversi lavori simili tra loro bisogna cercare di stimolarlo a creare qualcosa di diverso: chiedergli di aggiungere nuovi elementi o proporgli di utilizzare altre tecniche per eseguire lo stesso prodotto.

Naturalmente la necessità di ripetere lo stesso soggetto può indicare che questo ha un significato importante per il cliente e va quindi esplorata tale eventualità, sempre tenendo presenti le difese, le resistenze ed i tempi evolutivi. Creare qualcosa di nuovo può portare in superficie materiale represso, rimosso o, al contrario, collegato con quanto precedentemente ripetuto molte volte.

E’ importante tener presente sempre che l’ArtCounselor non deve porre l’enfasi sulla bellezza e sullo stile dei lavori prodotti; in generale ciò che conta è il processo di realizzazione e l’effetto psico-emotivo e corporeo che si attua nel cliente durante il processo creativo.

Se durante il processo creativo si liberano forti emozioni come pianto o rabbia, non bisogna averne paura; al contrario si tratta di momenti preziosi, catartici che l’ArtCounselor può utilizzare per ampliare nel cliente la consapevolezza del suo sentire.

Il conduttore, infatti, ha il compito di facilitare l’esplorazione del materiale difficile o doloroso costruendo con il cliente un’elaborazione ed una presa di coscienza dell’esperienza angosciante. In questo modo questa può trasformarsi per entrambi in un momento positivo di crescita, nel processo di individuazione verso un cambiamento ed una graduale risoluzione delle problematiche esistenti.

Spesso sono proprio questi momenti condivisi che aiutano a costruire “l’alleanza terapeutica” fattore basilare per ottenere dei cambiamenti.

I sentimenti di dolore e di gioia, tra sicurezza/contenimento e stimolo/sfida, danno senso al processo terapeutico, così come anche nella vita di ognuno.

Nel setting di Arteterapia ogni gesto acquista un significato profondo, che venga consapevolizzato dal cliente o introiettato inconsciamente. Porgere qualcosa che l’utente sta cercando viene solitamente vissuto come aiuto, facilitazione , sostegno, affetto; ma è altrettanto importante non prevenirlo, al fine di non sostituirsi a lui; così facendo si rischia di togliergli la possibilità di sperimentare la propria creatività e la propria autonomia di scelta.

Il Counselor deve essere un facilitatore che accompagna con discrezione … dunque

FARE PER ESSERE E SAPER FARE PER IMPARARE AD ESSERE!!!!


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Liberamente tratto da:

E.Giusti – I.Piombo

Arteterapie e Counseling Espressivo

Ed.ASPIC

lunedì 4 aprile 2011

"Il violinista verde" .... un viaggio attraverso la memoria

Marc Chagall - "Il Violinista Verde"


“Penetrare all’interno delle sue immagini è possibile solo dopo aver risvegliato in sé i resti dei ricordi infantili, e dopo aver fatto risorgere nell’animo quelle sensazioni dimenticate di quando viveva in noi la paura del buio, mentre una vecchia sedia poteva all’improvviso mettersi a ringhiare ed inseguirci” (Abram Efros)

Questo è un viaggio attraverso la memoria, il tempo, i luoghi. Dentro ci sono immagini, storie, ricordi, figure, sogni,oggetti, pagine di libri, spazi.

E’ un viaggio senza meta, uno strumento per tentare di bucare la pelle delle cose, per cercare di toccarle, di spogliarle del loro involucro più esterno per far riemergere emozioni, un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca del punto di partenza....

Il tempo lenisce, cura, rimargina, ma avvolge la mente di una spessa cortina di nebbia, sfocando le impressioni; i nitidi fotogrammi del passato diventano frammenti insipidi, incolori, inodori. Ma all’improvviso, un’immagine, una melodia, un semplice profumo bastano a sospendere il flusso dei pensieri e a trasportarmi , in un solo attimo, altrove....

Camminiamo lungo corridoi che si aprono su stanze ammobiliate, sture di impronte, pregne di odori e di presenze mai abbandonate....

Solo allora ci ri-conosciamo e ci ri-troviamo .....

Viviamo ristrutturando i nostri spazi, modificandoli, stratificando esperienze che diventano nuove stanze; apriamo una porta dietro l’altra fino a non sapere più da quale eravamo entrati la prima volta....


Inizia il viaggio.....

Prova ad aggirarti in questo labirinto con gli occhi della mente spalancati, le mani pronte a toccare, le orecchie tese a “riacciuffare” voci lontane... perditi nella “tua casa”, lascia riemergere emozioni e memorie, ritrova le parole, spolvera gli oggetti e ripercorri a ritroso la pianta della tua più intima dimora....


Cucina.....

Chiasso di voci riunite.... dolci sapori..... vapore dell’acqua che bolle ... odore di ragù .... rumore sordo di cucchiai di legno....

... la prima volta che ho preparato i biscotti, ho ancora nella testa la voce di mia nonna che mi elenca gli ingredienti ... il ribrezzo delle uova e il burro che si appiccicano alle mani.... l’impazienza davanti al forno .... il desiderio spasmodico di assaggiarne un pezzettino di cui ora non ricordo più il sapore ma solo il profumo e la lingua che bruciava...

“E ad un tratto il ricordo mi è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina (...) la zia Lèonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista del biscotto, prima di assaggiarlo, non m’aveva ricordato niente; (...) Ma quando niente sussiste di un passato antico (...), soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto....” (Marcel Proust, La strada di Swann, tratto da Alla Ricerca del tempo perduto)


Studio....

..silenzi ... sospiri ... carta ingiallita ... brusio di pagine .. polvere impalpabile .. pensieri liberi...ricordi.....

Gli immensi fogli bianchi che mio nonno stendeva accuratamente sul tavolo, li usava per provarci le matite e le penne prima di scrivere. Bastava avvicinarcisi per sentire l’odore sottile della grafite mischiato a quello dell’inchiostro. Io mi arrampicavo sulla sua sedia altissima per scarabocchiarci sopra. Era la nostra corrispondenza segreta....

Una immensa distesa di segni, graffiti, scritte, scarabocchi. Disegni e parole che si sovrapponevano, si incontravano, si espandevano, macchie di inchiostro, trame che crescevano e si ingrandivano sino a che non c’era più neanche un piccolo spazio bianco.

Studiavo davanti al libro ma lo sguardo era catturato dalle venature della scrivania: vicoli, sentieri tortuosi, autostrade di pensieri viaggianti, propositi, speranze future, strade da percorrere..... i segni sono ancora lì e mi aggiro volentieri fra i lisci disegni del legno, lasciando che la mente emigri verso nuove soluzioni, via, lontana dalla nostalgia di chi ero tanti libri fa.....


Camera da letto....

Fruscio delle lenzuola... odore di bucato ...respiro profondo ...tepore ... baci e carezze ....

Odore di sapone.

Fruscio di biancheria.

Sensuale leggerezza di stoffe.

Tepore, torpore.

La mia vestaglia di seta comprata dalla nonna. Il suo libro. Le mie pantofole dalla forma buffa. I suoi occhiali. Un profumo diverso, inconfondibilmente il suo ... e il mio....

“Sbatto le palpebre per la stanchezza e le mie ciglia emettono un suono minuscolo, impercettibile sul bianco sensibile dell’alto cuscino...” (Fernando Pessoa, Il libro dell’Inquietudine)

La camera di nonna nella villa in campagna dove passavo le estati... le notti dai temporali improvvisi persa nel suo letto.... davanti a me una tappezzeria con gli uccellini disegnati sopra. Uccellini sui rami, potevo osservarla per ore. Mi aspettavo sempre che prendesse vita quando si spegneva la luce. Tentavo di osservarla anche al buio. Stringevo gli occhi cercando di cogliere un qualsiasi movimento e restavo con il fiato sospeso quando la luce dei fari delle automobili passava rapida illuminandola a strisce, solo per un attimo. Lunghi fiori di luce attraverso le tende.....

... mi risveglio... sogno e ricordi si con-fondono.. tra le mani “il violinista verde”.. profumo di neve fresca, il suono stridulo di un vecchio strumento, il sapore aspro di un bicchiere di vino, uno sguardo sui tetti in una notte viola il mio morbido cuscino di piume..... le parole di Chagall “la città pare spaccarsi, come le corde di un violino, e tutti gli abitanti si mettono a camminare sopra la terra. I personaggi familiari si installano sui tetti e lì si riposano. Tutti i colori si rovesciano, si trasformano in vino che zampilla dalle mie tele... i miei quadri sono i miei ricordi...”


Da ascoltare: Somewhere Over the Raimbow - Norah Jones